1993
SENILITÀ di Ugo Marzi (da Italo Svevo)
(Roma – Teatro Le Salette, 5-21 marzo)
LA STORIA
EMILIO BRENTANI è un impiegatuccio, un autore fallito di un solo romanzo, che si avvia verso la vecchiaia senza aver conosciuto la vita. Vive con lui la sorella Amalia, una silenziosa e sfiorita zitella, logorata da vani desideri e come il fratello avviata verso una senilità senza luce, ma senza affanni; come loro è Stefano Balli, un mezzano scultore che esercita la sua amichevole influenza sui Brentani.
Emilio si innamora di Angiolina Zarri, figlia del popolo, avventurosa e falsa. È un fatto nuovo che sconvolge la vita del terzetto di ratés.
Anche Amalia risente della novità. Una sera Emilio ode Amalia che in sogno invoca il Balli. Inorridisce e, geloso dell’amico cui ormai Angiolina non lesina più i suoi sorrisi, allontana il Balli ed eccolo precipitare sempre più in un amore degradante; ogni suo tentativo di rivestire Angiolina d’un senso meno volgare fallisce. La ragazza non è la bionda Ange che Emilio cerca di creare per sé e per gli altri, ma è solo la Giolona carnale conosciuta da mezza Trieste.
Una notte, rincasando, Emilio trova la sorella in delirio; accorre anche il Balli che non viene neppure riconosciuto dalla donna; una scansia piena di fiale d’etere illumina i due uomini sul vizio che la zitella ha contratto per confortare i suoi disincanti. Mentre Amalia morente viene assistita da una vicina, Emilio si reca all’ultimo convegno con Angiolina e trova la forza di gridarle tutto il proprio disgusto.
Amalia muore in una atmosfera grottesca e la vita di Emilio Brentani riprende monotona e squilibrata dopo la vampata impetuosa che I’ha travolta e strinata.
NOTE DI REGIA
II capolavoro di ltalo Svevo, l’opera più perfetta, un tessuto d’introspezione tradotto in azione? La regia, senza salti di tono, con una recitazione tesa alla resa di una atmosfera psicologica, oltre che ambientale, non solo non ha distorto lo spirito del romanzo, ma non ha fatto accorgere del passaggio che è avvenuto dalla pagina al copione; ha creato un assolo tra la vicenda sentimentale del protagonista e il coro dei personaggi che la commentano. Senilità sta, appunto, per squallore di due vite mancate che hanno ignorato la giovinezza, non sono mai uscite da un limbo opaco.
Italo Svevo non solo colloca nel romanzo i suoi personali criteri, le sue sensazioni e una gran parte del proprio essere e della sua esperienza, ma è ad-dirittura sempre presente come attore e giudice; per questo l’Autore ha creato il personaggio nuovo di Michele. La regia è entrata nella zona oscura e sotterranea della coscienza, dove vacillano e si oscurano le evidenze più accettate, e ne ha riferito con un linguaggio metafisico. I personaggi sono collocati in profondità diverse e incorporati in tempi onirici, nel paradosso, nell’ermetismo; Emilio Brentani, che vive un amore grigio e indeciso con una ragazza incautamente idealizzata, è stato seguito con la stessa adesione divertita e febbrile con cui si annotano le avventure di Charlot; è un Mattia Pascal avanti con gli anni e pronto a raccontare la sua storia.
Un ordine categorico è stato imposto dalla regia: trovate quasi impercettibili, come modulazioni in certe musiche perfette, per sottolineare i passaggi improvvisi e necessari da un capitolo all’altro; l’analisi della gelosia ha ricordato Proust, la vicenda umana si è annodata e sciolta pensando ad Henry James e quando la messinscena ha preso corpo si è avuta la certezza di aver precorso Conrad e Joyce.
Senilità: 1898. La razionalità borghese aveva rovinato non solo gli schemi del naturalismo, ma scatenato anche il patologico come protagonista; la psicologia dilatata e l’irrazionalismo avevano superato tutte le ordinate strategie; Strindberg, Dostoevskij, Nietzsche demoliscono e smontano spietatamente le speranze e le illusioni della piccola borghesia. L’epopea di grigiore contenuta nel testo ha suggerito come scena una strada dritta tra pareti aggettanti; tutta la vicenda vuol essere uno sterrato d’introspezione grottesca ed ironica che, utilizzando la propria biografia interiore, anticipa Freud con un percorso in direzione della coscienza. Tutti i personaggi acquistano man mano la consistenza che hanno nel romanzo, si staccano dalle pagine nel ricordo di una carezza data ad una giovinetta senza nome. Essi non sono degli involucri appesi ad un attaccapanni, ma personaggi cui la regia ha saputo dar vita e di cui l’Autore non ha deformato sentimenti e passioni. Alla regia è parso anche che nelle immagini prospettate da Svevo circolasse un po’ di quell’aria tormentosa cara anche alla poesia di Saba; il teatro di regia, teatro come luogo privilegiato dell’attività critica, non si è lasciato sorprendere e ha cercato i contenuti, perché altrimenti, per l’assenza di discorso, il concetto sveviano sarebbe rimasto inafferrabile sul palcoscenico. Si è voluto, anche, un ironico svolgimento musicale per insaporire l’humour e lo scetticismo sornione presenti nel romanzo e per decrittare alcuni passaggi espressionistici della regia.
E, alla fine, per Emilio Brentani non è ancora venuto il tempo, è un uomo nato postumo; la vita non gli poteva concedere che le fossero imposti a priori schemi, labels, forme: se si opera con regole e facciate, la vita sfugge da tutte le parti ed è incomprensibile!
Anni dopo egli s’incantò ad ammirare quel periodo della sua vita, il più importante, il più luminoso … Ne sorrise come di cosa comicissima. Come erano stati colpevoli lui e Amalia di prendere la vita tanto sul serio!
NOTE DELL’AUTORE
Dal romanzo al copione
Se accettai di ridurre il romanzo sveviano fu per un tappo di spumante d’una bottiglia del 1898, deliberatamente fatto cadere su Amalia morente.
L’ironia, quale sentimento di autodifesa usato apparentemente quasi senza convinzione dall’autore di Senilità, mi persuase che l’operazione di riduzione teatrale poteva essere percorsa anche con i rischi che in ogni caso comporta per qualsiasi voce il salto di tonalità: il passaggio dal romanzo al copione.
E di voci in Senilità ce ne sono, perché tanti sono i personaggi e tutti con una propria scala cromatica i cui virtuali estremi vengono, direi, premeditatamente evitati da Svevo. Ne derivano caratteri articolati su note, se non stonate, certamente non piacevoli all’ascolto. Basti por mente a quell’esemplare di inettitudine che risponde al nome del protagonista.
Ho cercato di riproporre tali accenti sul palcoscenico con operazioni di sintesi, di astrazioni temporali e di reinterpretazioni.
Lasciando libero il mio istinto, ho cercato di forzare il lager che aggravava la sfortuna di Amalia. Forse per viscerale volontà di dare giustizia all’unica umanità che, in possesso d’una consapevolezza piena, risolve tutto autodistruggendosi con il coraggio della disperazione. E per la medesima volontà al “muto” Michele ho dato parola. Miracolato? Avevo urgenza d’una figura di sfogo per me “autore” e per Amalia, eroina umiliata. Entrambi mi sono aderenti come il “sudicio” ombrellaio che fa appena capolino per sospettare ingenuità, malizie ed equivoci.
Angiolina, dominatrice cosciente, appare e scompare a suo piacimento, affermando il diritto alla vita nei confronti di chi diritto non ne ha per senile inettitudine a trattenerla, perché invischiato tra le maglie d’una interpretazione rinunciataria e tormentata nel voler “essere Emilio”.
Se licenze mi sono preso e di costrutto e di futuribile, non credo che abbiano nociuto alla valenza né dei significati né dei personaggi all’origine, perché sono convinto, per l’uso quasi distaccato del suo raccontare, che questi “miei” stanno in armonia coi tempi, riproposti in un’estetica variata ma affine a quei ritratti amati da Svevo, che per nostra fortuna non sono gli unici nello spettro dei caratteri d’autore.
Circuito d’atmosfere che vive in un groviglio di ambigue malinconie e il Tema di Margherita, dedicato a questa figura nuova nel testo teatrale a significare una creatura nata di seconda intenzione come ballerina insicura, quasi un seguire sveviano.
Un valzer, la mia musica, che, nell’evolversi della commedia, racconta, commenta, sottolinea capitoli, talora in forme mascherate dalla struttura stessa del tessuto armonico, avvalendosi d’un esile filo melodico quasi sottinteso per privilegiare il contenuto che lo sovrasta.
II Tema è unico in tutta la rappresentazione, rigirato e rivoltato come un abusato vestito, complice la gestibile scomponibilità delle varie frasi musicali a volte a servigio, a volte protagonista delle emozioni più diverse. Se il Tema di Margherita è semplice, articolata e razionale è la molteplicità delle trasfigurazioni con cui si propone all’orecchio che non deve sforzarsi troppo per tradurre in immagini il contesto.
Talora l’evocazione appena accennata di mitici e consolidati pilastri musicali s’insinua, rigenerandosi in una sorta d’incarceramento, all’interno delle grate del Tema, costruito su misura dei van Beethoven, Wagner e Mendelssohn. Una musica malleabile, docile e talora ancillare dunque, ma non per questo priva di forza, perché, quando le e dato di mostrare la sua autorità, “l’uditore che ha buona memoria” se l’assicurerà oltre il teatro.
Ugo Marzi